L`arte del tufo

 

La "pietra bianca" di Favignana è un tufo conchigliare, considerato il più pregiato sia per la sua compattezza e grana fine, sia per quel colore lunare conferitogli da una maggiore concentrazione di calcio. Un bianco che col tempo, tuttavia, si ossida e si scurisce, appannandosi d'un biondo ocra dalle sfumature bronzee. Il "bianco" di Favignana è il prodotto delle diverse stagioni geologiche e l'isola, nata alla fine dell'ultima glaciazione, emerge oggi dal mare con una superficie di circa venti chilometri quadrati.

Lo zoccolo tufaceo più consistente regge l'ala nord-orientale dell'isola che nei secoli è stata ricamata, o meglio traforata, a "punto mafia" per circa quattro chilometri quadrati.

La secolare opera di scavo ha conferito all'isola un aspetto singolare, misterioso, tormentato, che tuttavia non aggredisce d'impatto, ma che si insinua lentamente nella fantasia del visitatore e ne cattura la curiosità, l'immaginazione, stimolando lo spirito d'avventura e il piacere della ricerca e della scoperta.

 

 

Non si sa quando l'uomo ha iniziato a sfruttare questa ricchezza, invece è certo che si insediò nell'isola settemila anni or sono. Abitò le sue grotte naturali che ampliò talmente da creare veri e propri santuari, ipogei di tufo ove lasciò segni evidenti della sua presenza.

Gran parte di queste testimonianze sono state inghiottite dal mare e con esse gli "alloggi". Lungo la costa di Punta Fanfalo sono evidenti i resti di questi ipogei del paleolitico che hanno le volte squarciate e l'acqua alla gola.

Il lento bradisismo in atto da quattromila anni ha fagocitato gli ipogei dei primi abitatori e corroso anche le prime cave, quelle più antiche, quelle che per comodità erano state aperte lungo la costa.

Infatti i primi cavatori aggredivano la roccia dal mare e poi, come talpe, si avventavano nel ventre dell'isola mordendolo, sezionandolo, ed estraendone con paziente lavoro, quasi un'arte, milioni di blocchetti squadrati chiamati "conci".

I conci, ammassati all'aperto, venivano spinti lungo un apposito scivolo, approdando così sulla chiatta ancorata sotto la cava. I conci delle cave più lontane erano invece trasportati su carri le cui ruote hanno lasciato profondi solchi nella roccia.

Nelle cave, i segni indelebili di un duro lavoro sono ancora oggi leggibili attraverso la trasparenza dell'acqua che si addentra, corrode, lambisce le frammentarie strutture più antiche. Sono vasche, scogli-sculture che si identificano subito per quella rigida geometria del taglio squadrato che seziona la roccia sia in senso verticale che orizzontale. Sono strutture che svettano come grattacieli o degradano sul mare in ampie gradinate e contrastano con la roccia selvaggia di cala San Nicola, tutta tormentata, arruffata in minuscole sporgenze, aguzze quasi fossero spruzzi di mare pietrificati.

 

 

Gli storici fanno risalire lo sfruttamento del suolo favignanese ai romani, e oggi, nella zona archeologica di San Nicola il mare lambisce il "bagno delle donne", una specie di piscina d'epoca romana che riceveva l'acqua da un condotto che la collegava al mare. Purtroppo l'insediamento è stato irrimediabilmente compromesso dai cavatori di tufo susseguitisi negli ultimi secoli.

 

Il ruolo del tufo nell'economia dell'isola è stato importante quanto la pesca. Infatti dal 1700 l'estrazione della pietra bianca ha avuto un crescente sviluppo. Nelle "mafie" si muoveva un alacre esercito di cavatori abilissimi e attorno a loro manovali, carrettieri, marinai delle vicine isole di Levanzo e di Marettimo. 

La lavorazione era basata sul cottimo. Il cavatore prendeva in appalto un terreno e lo preparava a proprie spese liberandolo dal "cappellaccio", cioè dal calcare di pietra durissima superficiale, dello spessore di uno, due metri.  Poi cominciava il vero lavoro di estrazione: il tufo veniva tagliato in blocchetti perfettamente squadrati 25x50 cm, 20x40 oppure 25x25.

La paga variava a seconda dei blocchi consegnati a fine giornata, pertanto il cavatore, per accumulare qualche lira in più coinvolgeva nel lavoro i figli, anche quelli più piccoli. Scendevano nelle "mafie" anche bambini di otto anni, e finivano con lo spendere in mezzo al tufo, alla sua finissima polvere che s'annida nei pori, asciuga le labbra, impasta sudore e saliva, il resto della vita.

 

 

Delle "mafie", i vecchi cavatori ricordano soprattutto la fatica, la fame saziata con pane e cipolla, spruzzata anch'essa di quella polvere bianca che incipria ogni cosa.

Per questi anziani il tufo non ha misteri, quasi fosse divenuto carne della loro carne. "La pietra - dicono - ha vene, arterie e nervi. Nervi che bisogna evitare. Guai a farli saltare: pareti e soffitti crollerebbero".

E' una familiarità con la pietra quasi viscerale acquisita dopo anni di vita vissuta a contatto, a colpi di "mannàra", di "cantuna", di "zappune" e di "picune". La "mannàra", una specie di piccozza a taglio largo, serviva per tracciare e approfondire nella roccia i contorni del blocchetto di tufo.

Nessun altro arnese aiutava il cavatore che lavorava esclusivamente a occhio, e dopo aveva le mani, le braccia e i movimenti formati e coordinati a praticare quest'arte distruttiva e creativa al tempo stesso.

  

 

  

Con il tufo, gli abitanti di Favignana ci vivono da sempre. L'antico quartiere di Sant'Anna si snoda su una serie di moduli cubici, o a parallelepipedo, e quando il gioco di ombre, nette e angolari, evidenzia la rigida geometria delle costruzioni, sembra che terrazze, porte e finestre siano ritagliate su pareti di cave o su enormi conci.

La vita col tufo non finisce qui. Molte vecchie "mafie" sono state riciclate in campi di coltivazione, e le possenti pareti levigate, incise da una fitta ragnatela di "cantuna", oggi cintano vigne, orti, giardini.

A cinque, sette metri di profondità, al riparo dall'arsura del vento e della salsedine, si coltiva la vite, si piantano agrumi, pomodori, ortaggi. In queste serre a cielo aperto fiorisce una stupenda flora spontanea e variopinta, fruttificano melograni, mandorli, fichi, aranci.

L'arte antica dell'estrazione del tufo, i suoni e le voci degli antichi "pirriatori", rivivono nei giardini a "mafia" come nostalgici, dolci ricordi di vite dure, genuine, autentiche.